La Voce degli Oppressi: Bartolomé de Las Casas e la Lotta per i Diritti Indigeni
La conquista europea delle Americhe rappresenta uno dei capitoli più controversi della storia mondiale, caratterizzato da un drammatico scontro tra civiltà diverse e da una sistematica oppressione dei popoli indigeni. In questo contesto di violenza e sfruttamento, emerge la figura straordinaria di Bartolomé de Las Casas, un sacerdote spagnolo che dedicò la sua vita alla difesa dei diritti degli indios, diventando una delle prime voci a denunciare le atrocità del colonialismo e a rivendicare la dignità umana di tutti i popoli.
Il mito della superiorità europea: una riflessione critica
All'epoca della conquista delle Americhe, gli europei si consideravano superiori rispetto ai popoli precolombiani, giustificando così la loro dominazione e lo sfruttamento sistematico delle popolazioni indigene. Questa presunta superiorità si basava principalmente su differenze tecnologiche, religiose e culturali che venivano interpretate come segni di inferiorità delle civiltà americane.
Le civiltà precolombiane erano effettivamente diverse dal punto di vista tecnologico: non conoscevano la ruota per il trasporto, non avevano sviluppato la metallurgia del ferro e non possedevano animali da tiro come cavalli o buoi. Alcune di queste civiltà praticavano rituali che agli europei apparivano barbarici, come i sacrifici umani degli Aztechi o le pratiche rituali dei Maya.
Tuttavia, questa valutazione ignorava completamente i straordinari achievements delle civiltà precolombiane: gli Inca avevano costruito un impero perfettamente organizzato con un sistema stradale che attraversava le Ande, i Maya avevano sviluppato un calendario più preciso di quello europeo e conoscenze astronomiche avanzate, gli Aztechi avevano creato Tenochtitlan, una delle città più grandi e organizzate del mondo.
La domanda che emerge spontanea è: come possiamo considerarci superiori se abbiamo sterminato intere popolazioni a sangue freddo quando non obbedivano ai nostri ordini? Se abbiamo bruciato vivi coloro che tentavano di praticare il loro culto? La presunta superiorità europea si rivelò essere principalmente una superiorità militare e tecnologica, non morale o culturale.
Bartolomé de Las Casas: da colonizzatore a difensore degli oppressi
Bartolomé de Las Casas (1484-1566) rappresenta una figura unica nella storia della colonizzazione americana. Nato a Siviglia, arrivò nel Nuovo Mondo nel 1502 come parte della spedizione di Nicolás de Ovando, con l'intenzione di prendere possesso della fattoria di suo padre, che aveva partecipato alla seconda spedizione di Colombo.
Inizialmente, Las Casas fu un tipico colonizzatore: possedeva terre e sfruttava il lavoro degli indigeni attraverso il sistema dell'encomienda. Per anni visse come un normale colono spagnolo, traendo profitto dal lavoro forzato degli indios senza porsi particolari questioni morali sulla giustizia di questo sistema.
La conversione spirituale di Las Casas avvenne gradualmente, influenzata dalle prediche di frate Antonio de Montesinos, che nel 1511 tenne un sermone famoso in cui denunciava il trattamento degli indigeni. Montesinos chiese ai coloni: 'Con quale diritto e con quale giustizia tenete in così crudele e orribile servitù questi indios?'
Nel 1514, Las Casas ebbe la sua illuminazione definitiva mentre preparava un sermone. Leggendo un passo del libro del Siracide che condannava chi offre sacrifici con i beni dei poveri, comprese improvvisamente l'ingiustizia del sistema coloniale. Decise di liberare tutti i suoi indios e di dedicare la vita alla loro difesa, diventando sacerdote nel 1507.
La 'Brevissima relazione': testimonianza di atrocità
Nel 1542, Las Casas scrisse la sua opera più famosa: la 'Brevissima relazione della distruzione delle Indie'. Questo documento rappresenta una delle prime denunce sistematiche delle atrocità commesse durante la colonizzazione e costituisce una testimonianza storica di inestimabile valore per comprendere la brutalità del sistema coloniale.
Las Casas non si limitò a teorizzare, ma fu testimone diretto di massacri e torture. Le sue descrizioni sono crude e dettagliate, destinate a scuotere le coscienze dei lettori europei: 'I cristiani, con i loro cavalli, spade e lance, cominciarono a fare crudeli stragi tra quelli. Entravano nelle terre, e non lasciavano né fanciulli né vecchi né donne gravide né di parto.'
Una delle testimonianze più agghiaccianti riguarda le torture sistematiche inflitte ai capi indigeni: 'Di solito uccidevano i signori e la nobiltà in questo modo: facevano alcune graticole di legni e ve li legavano sopra, e sotto vi mettevano fuoco lento, onde, a poco a poco, dando strida disperate in quei tormenti, mandavano fuori l'anima.'
Las Casas racconta anche un episodio particolarmente crudele: 'Io vidi una volta' che, essendo sopra le graticole quattro o cinque signori che gridavano e davano fastidio al sonno del capitano, questi comandò che li strangolassero, ma il boia non volle soffocarli; anzi, con le sue mani pose loro alcuni legni nella bocca perché non si facessero sentire, e attizzò il fuoco finché si arrostirono pian piano come egli voleva.'
Le Leggi di Burgos: un tentativo fallimentare di riforma
Nel 1512, la Corona spagnola promulgò le Leggi di Burgos, il primo tentativo di regolamentare il trattamento degli indigeni nelle colonie americane. Queste leggi nascevano dalla crescente pressione esercitata dai domenicani e da altri religiosi che denunciavano gli abusi del sistema dell'encomienda.
Le leggi stabilivano che gli indigeni erano uomini liberi e non schiavi, che dovevano essere trattati con giustizia e convertiti al cristianesimo. Prevedevano anche limitazioni al lavoro forzato, l'obbligo di fornire cibo e alloggio adeguati, e il divieto di maltrattamenti fisici. Sulla carta, rappresentavano un progresso significativo nella protezione dei diritti indigeni.
Tuttavia, le Leggi di Burgos fallirono completamente nel loro obiettivo di proteggere gli indigeni. La distanza tra la Spagna e le colonie americane rendeva difficile il controllo dell'applicazione delle leggi, e i coloni trovarono mille modi per aggirare le disposizioni reali. I massacri di indios continuarono ad essere all'ordine del giorno.
Il Re non ascoltò le continue denunce dei domenicani che chiedevano un'evangelizzazione pacifica dei nativi. Gli interessi economici in gioco erano ormai troppo alti: la Spagna stava guadagnando fiumi di denaro dallo sfruttamento delle risorse, umane e naturali, del Nuovo Mondo. L'oro e l'argento americani finanziavano le guerre europee e il lusso della corte spagnola.
Voci contrastanti: chi difendeva la schiavitù indigena
Non tutti i religiosi condividevano le posizioni di Las Casas. Tommaso Ortiz, un frate domenicano, rese pubbliche opinioni diametralmente opposte, sostenendo che gli indigeni americani dovevano diventare tutti schiavi. Le sue argomentazioni riflettevano i pregiudizi più profondi dell'epoca e fornivano una giustificazione religiosa allo sfruttamento.
Secondo Ortiz, gli indigeni 'si nutrivano di carne umana', non esisteva tra loro né giustizia né leggi, erano sempre nudi, erano esseri inutili, non avevano umanità e non erano capaci di prendere decisioni razionali. Queste accuse, spesso esagerate o completamente false, servivano a dipingere gli indigeni come esseri subumani che meritavano la schiavitù.
Juan Ginés de Sepúlveda, un importante umanista e teologo spagnolo, condivideva queste opinioni e definiva gli indigeni 'omuncoli' (piccoli uomini). La sua argomentazione si basava sulla filosofia aristotelica della schiavitù naturale: alcuni esseri umani sarebbero naturalmente destinati a servire altri più intelligenti e civilizzati.
Sepúlveda scriveva: 'Il fatto poi che alcuni di loro sembrino avere dell'ingegno', per via di certe opere di costruzione, non è la prova di una più umana perizia, dal momento che vediamo certi animaletti, come le api e i ragni, costruire opere che nessuna attività umana saprebbe imitare.' Questa comparazione degli indigeni con gli animali rivela il profondo disprezzo e la totale mancanza di comprensione delle culture americane.
L'esperimento di Cumaná: un tentativo di colonizzazione pacifica
Nel 1520, Las Casas riuscì a ottenere un incredibile successo politico quando fu autorizzato dal Consiglio di Castiglia a costituire una colonia pacifica presso Cumaná, nell'attuale Venezuela. Questo esperimento rappresentava un tentativo rivoluzionario di dimostrare che era possibile colonizzare le Americhe senza violenza e sfruttamento.
Il progetto prevedeva la creazione di una comunità mista di spagnoli e indigeni, basata sul rispetto reciproco, sul commercio equo e sull'evangelizzazione pacifica. Las Casas ottenne il titolo di 'Protettore degli Indios' e ampie autonomie per gestire la colonia secondo i suoi principi umanitari.
Inizialmente, l'esperimento sembrò riuscire. Gli indigeni locali accolsero favorevolmente i nuovi arrivati, che si comportavano diversamente dai soliti conquistadores. Si stabilirono rapporti commerciali pacifici e iniziò un processo di evangelizzazione non forzata. Per un breve periodo, sembrò possibile un modello alternativo di colonizzazione.
Tuttavia, non appena Las Casas lasciò temporaneamente la colonia per recarsi in Spagna a cercare rinforzi, scoppiò una ribellione dei nativi che distrusse l'insediamento. Alcuni storici sostengono che la rivolta fu fomentata da emissari dei conquistadores, che vedevano nel tentativo pacifico di Las Casas un gravissimo attentato al redditizio sistema dell'encomienda.
L'eredità di Las Casas e il dibattito moderno
Nonostante il fallimento dell'esperimento di Cumaná, Las Casas non si arrese. Continuò per tutta la vita a scrivere, predicare e lottare per i diritti degli indigeni. Le sue opere influenzarono il dibattito europeo sui diritti umani e contribuirono allo sviluppo del diritto internazionale moderno.
La 'Brevissima relazione' fu tradotta in molte lingue e divenne uno strumento di propaganda anti-spagnola utilizzato dai nemici della Spagna (la cosiddetta 'Leggenda Nera'). Tuttavia, al di là degli usi politici, l'opera di Las Casas rimane una testimonianza fondamentale sulla brutalità del colonialismo e un appello universale alla dignità umana.
Le idee di Las Casas anticiparono di secoli i moderni concetti di diritti umani. La sua affermazione che tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro cultura o religione, possiedono una dignità intrinseca e diritti inalienabili, rappresenta una delle prime formulazioni del principio di uguaglianza umana.
Il dibattito tra Las Casas e Sepúlveda, che culminò nella famosa Controversia di Valladolid (1550-1551), può essere considerato il primo grande dibattito sui diritti umani nella storia occidentale. Anche se non si raggiunse una conclusione definitiva, il fatto stesso che si discutesse della natura umana degli indigeni rappresentò un precedente importante per i futuri sviluppi del pensiero umanitario.
Il riconoscimento contemporaneo: la Dichiarazione ONU del 2007
Per secoli, i diritti delle popolazioni indigene rimasero largamente ignorati dalla comunità internazionale. Solo nel XX secolo, con lo sviluppo del moderno sistema dei diritti umani, iniziò un processo di riconoscimento formale dei diritti specifici dei popoli indigeni.
Il 13 settembre 2007 rappresenta una data storica: l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la 'Dichiarazione sui Diritti dei Popoli Indigeni', il primo documento internazionale che riconosce specificamente i diritti collettivi e individuali delle popolazioni indigene di tutto il mondo.
La dichiarazione fu approvata con 143 voti favorevoli, ma significativamente 4 paesi votarono contro: Australia, Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti, tutti paesi con importanti popolazioni indigene e una storia di colonizzazione. Undici paesi si astennero, tra cui Colombia, Nigeria e Russia.
Il documento afferma principi fondamentali che echeggiano le idee di Las Casas: 'i popoli indigeni sono uguali a tutti gli altri popoli', pur riconoscendo il diritto di tutti i popoli ad essere diversi, a considerarsi diversi, e ad essere rispettati come tali. La dichiarazione condanna inoltre 'tutte le dottrine, politiche e pratiche che si basano o che sostengono la superiorità dei popoli o degli individui sulla base dell'origine nazionale, razziale, religiosa, etnica o di differenze culturali' definendole 'razziste, scientificamente false, giuridicamente nulle, moralmente esecrabili e socialmente ingiuste.'
Conclusione
La figura di Bartolomé de Las Casas rappresenta una delle prime e più coraggiose voci nella storia della difesa dei diritti umani universali. La sua lotta contro l'oppressione dei popoli indigeni americani anticipò di secoli i moderni concetti di dignità umana e uguaglianza. Sebbene i suoi sforzi non riuscirono a fermare le atrocità del colonialismo, le sue idee e testimonianze hanno attraversato i secoli, ispirando generazioni di attivisti per i diritti umani. Il riconoscimento formale dei diritti dei popoli indigeni da parte delle Nazioni Unite nel 2007, pur arrivando con secoli di ritardo, rappresenta il compimento ideale della missione iniziata da Las Casas: il riconoscimento che tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro cultura, religione o origine etnica, possiedono una dignità intrinseca e diritti inalienabili che devono essere rispettati e protetti.