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Leopardi: 'Canto notturno di un pastore errante dell'Asia' - filosofia esistenziale e pessimismo cosmico

Pubblicato il 18/05/2025
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Il 'Canto notturno di un pastore errante dell'Asia' di Giacomo Leopardi rappresenta una delle vette più alte del pessimismo cosmico leopardiano e della poesia filosofica dell'Ottocento. Composto tra il 1829 e il 1830, questo componimento si distingue nettamente dagli altri canti per l'assenza della poesia della rimembranza e per l'adozione di un paesaggio remoto e lontano come scenario delle riflessioni esistenziali più profonde del poeta.

Genesi e contesto del componimento

La genesi del 'Canto notturno' deriva dalla lettura di un articolo di giornale del barone Alexander von Humboldt, che descriveva pastori nomadi dell'Asia centrale soliti contemplare la luna cantando melanconici canti notturni. Questo spunto letterario fornì a Leopardi l'occasione per sviluppare una riflessione filosofica di portata universale, utilizzando la figura del pastore come simbolo dell'umanità intera di fronte al mistero dell'esistenza.

Il componimento si differenzia significativamente dalle altre opere di questo periodo per l'abbandono della poesia della rimembranza e per l'adozione di un linguaggio più chiaro ed esplicito nell'affrontare i grandi temi filosofici. Il paesaggio esotico e remoto dell'Asia diventa così lo scenario ideale per una meditazione che trascende ogni contingenza storica e geografica.

Struttura metrica e linguistica

Il canto è strutturato in sei strofe libere composte da endecasillabi e settenari, secondo la tradizione della canzone leopardiana. Ogni strofa si conclude con la rima in -ale (immortale, mortale, cale, male, assale, Natale), creando un effetto di circolarità e di inesorabilità che rispecchia il tema dell'eterno ritorno delle domande senza risposta.

Il linguaggio adottato è caratterizzato da una semplicità e chiarezza espositiva che riflette la condizione di 'ignorante semplicità' del pastore protagonista. Questa scelta stilistica non rappresenta un impoverimento espressivo, ma piuttosto la ricerca di una verità poetica che emerga dalla purezza dell'interrogazione esistenziale, non mediata dalle sovrastrutture culturali.

Il protagonista: il pastore come alter ego universale

Il pastore errante assume nel componimento il valore di figura simbolica universale, rappresentando l'uomo nella sua condizione esistenziale più autentica. La sua 'ignoranza' non è limitazione intellettuale, bensì saggezza primitiva che lo pone sullo stesso piano del filosofo più dotto nell'incapacità di trovare risposte ai grandi interrogativi dell'esistenza.

Leopardi stabilisce un parallelismo esplicito tra il pastore e l'Islandese del 'Dialogo della Natura e di un Islandese': entrambi rappresentano l'umanità che si confronta con l'indifferenza della natura, ma mentre l'Islandese è un uomo colto, il pastore incarna la condizione umana nella sua semplicità più genuina. Questa differenza sottolinea che la sapienza non fornisce alcun vantaggio nella comprensione del mistero della vita.

La luna come interlocutore silenzioso

La luna assume nel canto il ruolo di destinatario delle domande del pastore, configurandosi come simbolo della natura nella sua totalità. Gli attributi costantemente riferiti alla luna - 'silenziosa', 'lontana', 'eterna' - sottolineano la distanza incolmabile tra la condizione umana e la dimensione naturale, incapace di fornire risposte alle angosce esistenziali dell'uomo.

Il parallelismo stabilito tra il cammino notturno della luna e quello diurno del pastore crea una corrispondenza simbolica che evidenzia al contempo le analogie e le differenze tra la condizione umana e quella naturale: entrambi sono caratterizzati dal movimento perpetuo, ma mentre quello della luna è eterno e immortale, quello del pastore è breve e destinato alla morte.

Le strofe e i temi fondamentali

La prima strofa introduce immediatamente il tema centrale attraverso le domande rivolte alla luna sul senso del suo eterno cammino celeste, stabilendo il parallelismo con il viaggio terreno del pastore nomade. Il verso 'Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, / Silenziosa luna?' apre il componimento con l'interrogazione diretta che caratterizzerà tutto il canto.

La seconda strofa sviluppa una riflessione amara sulla condizione umana, rappresentando la vita come 'un percorso difficile, pieno di insidie che si conclude con la morte, con il nulla eterno'. La metafora della vita come 'la corsa affannosa di un vecchio ammalato che dopo tante fatiche precipita in un abisso' esprime con efficacia drammatica la concezione leopardiana dell'esistenza come sofferenza culminante nell'oblio.

L'invidia verso il gregge e la riflessione sulla felicità

Nella quinta strofa emerge uno dei passaggi più significativi del componimento: l'invidia del pastore verso il suo gregge, capace di vivere 'attimo per attimo' senza la consapevolezza del dolore. Questa riflessione introduce il tema della superiorità della condizione animale rispetto a quella umana, fondata sull'assenza di quella coscienza che è al contempo privilegio e condanna dell'uomo.

Il pastore riconosce che 'il gregge è beato perché non c'è la consapevolezza del dolore' e non prova quella noia che affligge l'essere umano, intesa come 'mancanza di stimoli, di sensazioni'. Questa osservazione rivela la tragica condizione umana: la razionalità che distingue l'uomo dagli animali è anche la fonte della sua infelicità.

Il pessimismo cosmico e la conclusione

La sesta e ultima strofa raggiunge il culmine del pessimismo cosmico leopardiano con la conclusione che 'la felicità non è concessa a nessuna forma di vita sulla terra'. Inizialmente il poeta ipotizza che forse gli uccelli, capaci di volare e quindi fisicamente staccati dalla terra, possano godere di una condizione privilegiata, ma immediatamente rigetta questa possibilità.

La conclusione definitiva è che 'la vita è sofferenza per qualsiasi forma di vita' e che 'il giorno della nascita è un giorno funesto per tutti'. Questa visione universale della sofferenza eleva il pessimismo leopardiano da condizione individuale a legge cosmica, abbracciando ogni forma di esistenza nell'universo.

Significato filosofico e letterario

Il 'Canto notturno' rappresenta la più alta espressione poetica del pessimismo cosmico leopardiano, traducendo in versi di straordinaria intensità lirica le riflessioni filosofiche elaborate nelle Operette morali. Il componimento dimostra come la poesia possa farsi veicolo di pensiero filosofico senza perdere la propria specificità artistica.

L'opera si configura come un dialogo mancato tra l'uomo e la natura, dove l'assenza di risposta diventa essa stessa risposta: il silenzio dell'universo di fronte alle domande umane rivela l'assurdità dell'esistenza e l'impossibilità di trovare un senso razionale alla vita. In questo modo, Leopardi anticipa temi che saranno centrali nell'esistenzialismo del XX secolo.

Conclusione

Il 'Canto notturno di un pastore errante dell'Asia' rimane una delle vette più alte della poesia italiana ed europea, capace di coniugare profondità filosofica e perfezione formale in un'opera di universale risonanza. Attraverso la figura semplice e primitiva del pastore, Leopardi riesce a dare voce alle domande più profonde dell'umanità, creando un capolavoro che trascende ogni limite temporale e geografico per parlare direttamente al cuore di ogni lettore.